Recensioni

URBANA di Vincenza Salvatore (Casa Editrice: Bertoni Editore)

Esistono malattie dalle quali nessuno può scappare, mali morbosi ai quali non si può porre rimedio se non la disillusione. Urbana, quarantenne tossica e con l’HIV, e il protagonista, presumibilmente un malato psichiatrico, vivono un’ossessione morbosa che si autoalimenta: la magrezza spettrale di Urbana, lasciata completamente sola dalla società, e la nevrosi del protagonista si intrecciano in una follia spersonalizzante, in cui i corpi la fanno da padrone. Nel romanzo di Vincenza Salvatore troviamo continui riferimenti al corpo di Urbana, dilaniato dalla droga, dall’HIV e dalle costanti violenze che subisce ogni giorno; eppure, il corpo martoriato della tossicodipendente appare talmente sensuale al protagonista, in un gioco di repulsione e di desiderio tipico degli Scapigliati milanesi e piemontesi dell’‘800. Urbana è una figura che fin dall’infanzia va fuori dagli schemi imposti dall’opulenta società borghese: lasciata sola persino dalle istituzioni che avrebbero dovuto aiutarla, Urbana si barcamena per le vie di Roma, inseguita dal protagonista – amico di infanzia, che la conduce in una spirale di sesso, droga e degrado. Eppure, quello stesso degrado suona al protagonista come una favola, tanto che per lui Urbana diviene “la donna della sua vita”. Come nel celebre romanzo di Christiane F.  I ragazzi dello zoo di Berlino, Vincenza Salvatore tesse una tela morbosa dove la droga si intreccia all’amore, che si tramuta in ossessione al centro di una società che chiude gli occhi e si tappa le orecchie dinnanzi al disagio dei due protagonisti.


Recensione di: Marco Canonico

STORIA DI QU di Stelio Zaganelli (Casa Editrice: Bertoni Editore)

Aristotele diceva che ogni uomo aspira per natura alla conoscenza. Per Quintus “Qu”, ricco rampollo di una famiglia di notai, la conoscenza è fatta di una ricerca di se stesso, delle sue cause e dei suoi principi primi. Stufo della sua vita patinata e ipocrita, nel 1999 Qu si mette in viaggio alla ricerca di sé: ha genitori che non stima, una fidanzata che non lo ama e amici che non lo comprendono. Peregrinerà per gli Stati Uniti, la Thailandia e il Messico, ogni volta alla ricerca di un pezzo di sé. Si ridurrà all’annichilimento più totale della sua persona, per poi risorgere nuovamente come l’Araba Fenice. Toccherà con mano il Samsara e il Nirvana, per uscirne realizzato e, come nel mito platonico degli Androgini, alla ricerca di Arianna, la sua vera metà. Qu potrebbe essere all’inizio un inetto a vivere alla Svevo o alla Tozzi, come possiamo leggere al principio del romanzo, dove troviamo un figlio di papà che si piange addosso, per poi passare a tinte di violenza degne di Dostoevskij, giungendo alla fine al vero modello del romanzo Siddharta di Hermann Hesse: come il protagonista dell’amatissimo romanzo di formazione, Qu sperimenta il dolore, la prostrazione dell’anima del Samsara, ma anche il riconciliarsi con l’Uno del Nirvana. Stelio Zaganelli con il suo romanzo Storia di Qu  ci ipnotizza (è proprio il caso di dirlo) e ci riconnette al nostro vero io, il quale, secondo un disegno karmico, è estremamente interconnesso al “tu” dell’altro. 

Recensione di Marco Canonico

LA STORIA DELL'ARTE. Dal caffè della mattina al bicchiere della staffa di Massimo Magurano (Casa Editrice: Bertoni Editore)

Cosa hanno in comune Michelangelo Buonarroti e l’arte greca? Oppure, cosa distingue l’arte astratta di Kandinskij dall’iniziale magia dell’arte primitiva? In questo breve prontuario di storia dell’arte intitolato La storia dell’arte. Dal caffè della mattina al bicchiere della staffa scopriremo che artisti come Caravaggio e Oskar Kokoschka, nella loro volontà di rappresentare la naturalezza a dispetto del bello, non erano poi così diversi. Scopriremo anche delle affinità tra il pittore inglese Turner e Claude Monet, tra Salvador Dalì e Francisco Goya e tra Piet Mondrian e l’arte primitiva. Come ci ricorda l’autore, Massimo Magurano, nel primo capitolo l’arte era per gli uomini primitivi innanzitutto una forma magica e solo dopo si è passati alla ricerca del realismo. Eppure, la genialità di Leonardo, l’esplosione pittorica di Van Gogh e il rifiuto della realtà di artisti come Il Parmigianino non sono forse magia? Troppe volte i libri d’arte ci hanno abituato a compartimenti stagno, dove ogni pittore o artista sembra non avere maestri o modelli; in realtà c’è un filo rosso, o meglio, due principi contrapposti tra loro che legano l’arte di tutti i secoli: la ricerca della magia e la ricerca del realismo. Massimo Magurano ci mostra come questi due principi, in fondo complementari, accompagnino la storia dell’arte nel suo dipanarsi.

Recensione di: Marco Canonico

MULIERIS VERBA di Ramona Saperdi (Casa Editrice: Polymetis Edizioni)
L’amore è una cosa che capita e che non si può comandare, ma quando l’amore finisce è sempre una piccola – grande tragedia. Già dalla sua nota autoriale a inizio silloge Ramona Saperdi ci avvisa di essere stata cancellata dalla vita di una persona in un modo che, direbbe Francesca da Rimini, “Ancor m’offende”. Ramona aveva quindi due possibilità e sceglie la via più difficile, ossia quella di raccontare quei baci che sanno di salsedine, ma che lasciano in bocca il sapore amaro dell’abbandono. Mulieris Verba sono le parole vibranti di una donna che non si arrende, ma, anzi, prende la sua penna e racconta. Esattamente come Ovidio e Callimaco contro i loro detrattori, l’autrice tace il nome della persona che l’ha abbandonata, riducendolo a mero fantasma, con cui si è consumato qualche bacio al gusto di mare. La seconda parte del volume è una silloge rieditata da Ramona con Polymetis dal titolo Sognando in bianco e nero: il bianco e il nero sono i tasti del pianoforte che l’autrice suona e che sono parte di lei. In questa raccolta Ramona Saperdi ci mostra se stessa sotto tutti i punti di vista: dalle sue passioni alla tenera visione di un bambino appena nato. In definitiva, l’autrice, come in un quadro di Degas o di Monet, ci regala due piccole sillogi poetiche dove il movimento e la luce regnano sovrane. Un piccolo gioiello di impressionismo poetico.

Recensione di: Larissa Gaudi

FIORIRÒ NEL FUOCO di Marco Canonico - Eleonora Federici (Casa Editrice: Bertoni Editore)

Tramite questa recensione voglio far luce su una silloge poetica scritta a quattro mani, che oserei definire “Infuocata”: si tratta di Fiorirò nel fuoco di Marco Canonico ed Eleonora Federici. La silloge si compone di due parti: “Sogni di fuoco e cenere” e “Mater dolorosa”. Nella prima l’io lirico è imprigionato in un non – luogo, una sorta di limbo simile a un ospedale psichiatrico, dove, nella sua più totale prigionia, l’io lirico si interroga, rievoca i fantasmi di una donna passata e cerca di comprendere quale sia il suo futuro dopo il limbo: se l’Inferno o il Paradiso. La seconda parte è narrata da una voce femminile e potrebbe essere riassunta in una parola: non comprendere, perché l’io lirico femminile non riesce a carpire cosa stia accadendo nella psiche del suo compagno. Interessante l’assimilazione tra l’io poetico e la figura della Madonna, che vede suo figlio Gesù avviarsi al Calvario. Anche le stagioni sono testimoni di questo continuo cercarsi: si passa dall’inverno di “Sogni di Fuoco e Cenere”, alla primavera, che è la rigenerazione di tutte le cose, di “Mater Dolorosa”. Alla fine, come nel ciclo vitale delle stagioni, tutto si rigenererà in qualcosa di nuovo. Vorrei concludere con le parole del “Cantico dei Cantici” che dicono: “Alzati, Amica mia, mia bella, e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato, e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna.”

Recensione di: Larissa Gaudi

SOGNI D'AMERICA E POP di Eleonora Federici (Casa Editrice: Polymetis Edizioni)

La silloge poetica che vi esporrò in questa recensione è atipica sotto ogni punto di vista: immaginatevi continui riferimenti a marche di vestiti, giacconi, che popolano i pullman degli studenti intenti ad andare a scuola. Ebbene, Sogni d’America e Pop di Eleonora Federici dipinge un ritratto lucido, oserei dire spietato, dell’adolescenza degli anni 2010: una gioventù materialista, che vive per lo shopping del sabato pomeriggio, per il centro commerciale, nuovo luogo di culto per i giovani, e per la marijuana consumata ascoltando cantanti commerciali, fingendosi trasgressivi. Il tutto è ambientato a Perugia, ma non in quella delle cartoline, bensì in quella delle periferie. Totalmente assenti gli adulti, anzi, si cerca di fare di tutto per scimmiottarli, con il trucco sbavato e malconcio di alcune poesie. Tutto questo odore di sagra di paese, di luna park improvvisato si sente particolarmente nelle liriche di Federici, in cui non mancano riferimenti alla musica: dal complesso metalcore degli Architects, alla fusion di Chick Corea, passando per lo sperimentalismo di Miles Davis. Diceva Menandro “muore giovane chi è caro agli dèi”; Eleonora Federici ci dice che il giovane è già morto, come Dio in Nietzsche.

Recensione di: Larissa Gaudi

LA FORZA DELLA (MIA) VITA di Paolo Vallesi (Casa Editrice: Bertoni Editore)

L’umanità non è una cosa semplice, pensiamo noi, ma, ascoltando la canzone “La forza della vita” ci accorgiamo che essere pienamente umani non è poi così difficile come sembra. Paolo Vallesi, cantautore italiano (uso proprio questo termine) ha scritto La forza della (mia) vita non per vanagloria o vanità, ma semplicemente per mostrarci che siamo esseri umani e che l’aiuto tra di noi è la cosa più importante che possa esistere. Una canzone di Vallesi, che lo ha portato a vincere nelle Nuove Proposte del Festival di Sanremo del 1991, si intitolava “Le persone inutili”, che sono le persone che fanno del bene ogni giorno, nonostante non siano sotto ai riflettori. L’apparente ossimoro del titolo della canzone fa riflettere sul carattere di Paolo Vallesi: egli, infatti, si dipinge come una persona sempre tesa ad aiutare gli altri, a cui, certo, non sono mancate delusioni, ma che lo hanno rafforzato rendendolo ancora più altruista. La forza della (mia) vita è un inno alla musica, specialmente alla tenacia di non arrendersi mai e di continuare a portarla avanti, nonostante tutto. Voglio chiudere con un episodio: nel libro di Roberta Salvati, donna folignate che ha sconfitto una brutta malattia e autrice del libro Tu con me, c’è una citazione del brano più famoso di Vallesi: “La forza della vita”, a testimoniare che la vita non si ferma di fronte a niente e mai si fermerà.

Recensione di: Marco Canonico

LA TERZA IDENTITÀ di Selene Luise (Casa Editrice: Bertoni Editore)

Immaginatevi un giudice detto il “Tritacarne”, terribile e inflessibile con gli accusati, capace di portare allo stremo anche il criminale più efferato. Così è Clara Gladio, Pubblico Ministero di ventinove anni, ma temuta da tutti per le sue sferzanti arringhe accusatorie; Clara è tuttavia una donna sola, che ha fatto della giustizia e della carriera il suo ideale massimo: in profondo disaccordo con la madre psichiatra, che sembra non conoscerla affatto, Clara si consola con l’amica Flaminia e il carabiniere Emanuele. Un giorno, un caso archiviato da più di vent’anni, accaduto nei bassifondi dell’immaginaria città di Terrapira, sconvolgerà la vita di Clara: si tratta della scomparsa di una ragazza di nome Lucia, avvenuta anni prima, con la madre, paziente psichiatrica che non si rassegna all’idea di non poter trovare la verità sulla scomparsa della figlia. Passato e presente si intrecceranno così nella narrazione, anche a livello geografico: da una parte abbiamo il presente di Terrapira in, la parte ricca e opulenta della città; dall’altra la miseria più nera di Terrapira out, bassifondi governati dalla malavita. Proprio in quella periferia degradata Clara scoprirà un qualcosa che le appartiene, che è sempre stato suo: l’identità e l’affetto famigliare. La figura di Clara comincia così a mutare: da inflessibile magistrato si trasforma in una persona umana, con valori e sentimenti forti. Selene Luise con  La terza identità non vuole solo raccontare una classica storia thriller, ma vuole descrivere la scoperta di se stessi, delle proprie radici, dei propri affetti e, in generale, quella di non essere un semplice ingranaggio in una macchina, ma parte di una vita con un cuore pulsante. 


Recensione di Marco Canonico/Larissa Gaudi

LET HIM GO di Emanuela Carissimi (Casa Editrice: Polymetis Edizioni)
Cristina “Cris” Wilson si ritrova a ricominciare la sua vita nel pieno dei diciotto anni. Dalla calda Miami si trasferisce nella piovosa Seattle, a causa della scomparsa del padre, marine dato disperso dopo un’operazione militare. Cris, ragazza timida e impacciata, andrà a studiare in un college locale. A parte il fratello Justin, che però è il classico “duro” della situazione, che nasconde i propri sentimenti dietro una finta freddezza, non ha nessuno. La figura del fratello sarà molto importante per lo sviluppo del romanzo, perché, pur di nascosto, tenterà sempre di proteggere la sorella. La vita al college per Cris non è facile: avrà infatti a che fare con Cloe, bulla sociopatica, ma anche con amici fidati come Andrew e Matthew, tanto che si innamorerà di uno dei due. Ma è davvero oro tutto quello che luccica? Let him go, che tradotto in italiano significa “lascialo andare”, di Emanuela Carissimi è un invito a gettarsi il passato alle spalle, nonostante esso torni a fare capolino, e a ricominciare, sempre e comunque. Questo romanzo sia rosa sia di formazione ti coinvolge dall’inizio alla fine e porta il/la lettore/lettrice a immedesimarsi nei personaggi e nella vicenda narrata. 

Recensione di Larissa Gaudi

PENELOPE di Francesca Broso (CASA EDITRICE: POLYMETIS EDIZIONI)

La poetessa americana Anne Sexton nel suo compimento “Doppia Immagine”, dedicato alla figlia, scriveva: “Oggi, piccina mia, gioia/ ama il tuo essere dove adesso vive.” Nella sua autoconfessione Sexton scrive che la figlia non riconosceva la sua voce quando tornava dall’ospedale psichiatrico; eppure, le fa un augurio, ossia quello di amare il suo essere ovunque esso sia. Francesca Broso in Penelope, dopo un lungo peregrinare attraverso se stessa come Odisseo, ma anche dopo una lunga attesa come Penelope, quell’essere l’ha trovato e si identifica nell’esser donna in tutte le sue sfaccettature. Si passa dai Giardini dell’Eden della sezione “Gardens”, dove nella lirica “Crunch” l’io lirico morde la mela del peccato che porta alla conoscenza. “Seas and skies”, seconda sezione della raccolta richiama il viaggio e quell’amore che sa di mare, con l’aggiunta dell’amata e magica terra irlandese. Nella terza sezione, “Rooms of my past and my future”, probabilmente la più intimistica della silloge, l’autrice ripercorre la propria infanzia, collegata a doppio filo con quella della figlia: in “My child” l’autrice scrive “ti ho sognata stanotte./ Eri così piccola e i tuoi capelli erano neri./ Tu eri tu e io sono io.” In questo modo si rovescia il paradigma di Sexton per cui la figlia non è altro che l’immagine della poetessa americana: l’alterità, che si incontrerà nella sezione “My other perspective”, seppur deludente, serve a far capire all’io lirico chi è realmente. Questo processo culminerà nell’ultima sezione “Wondering about”, che è quella di una donna che ha trovato la sua sintesi: infatti in “Mathematics” l’autrice scriverà “Sono la somma/ dei miei sette starti di pelle”. Per concludere, Francesca Broso con la sua raccolta Penelope ci invita a spogliare il nostro essere delle cose più banali e futili per arrivare ad amarlo “dove adesso vive”. 

Recensione di Marco Canonico/Larissa Gaudi

LO AMMETTO HO TENTATO DI ESSERE FELICE! di Gianluca Brundo (Casa Editrice: Bertoni Editore)

“Sono un essere imperfetto. Sono nato imperfetto. Morirò imperfetto. Forse un po’meno imperfetto, ma pur sempre imperfetto. Però, lo ammetto, ho tentato di essere felice.” Sono queste le parole che Gianluca Brundo utilizza nel capitolo finale della sua autobiografia (ma forse sarebbe meglio chiamarla “raccolta di esperienze autobiografiche”) intitolata  Lo ammetto ho tentato di essere felice.  Grazie a un celebre espediente letterario, ossia un taccuino del 1992 ritrovato per caso, l’autore ci mostra una strada, che alla fine è la sua strada personale, per la ricerca della felicità, la quale, parafrasando il film Into the wild – nelle terre selvagge, è tale solo se condivisa. Potrebbe sembrare contraddittorio che un uomo con una tale consapevolezza di sé possa pensare alla condivisione: il mondo moderno, definito dall’autore come “tritacarne”, intento solo a crearsi nemici immaginari, come il pesce spada che nella tonnara uccide i tonni, ci ha abituati all’infelicità, la quale è un prodotto artificiale, frutto di un’errata proiezione di noi stessi. Gianluca Brundo ci invita invece alla contemplazione dell’universo, di cui siamo parte integrante, alla lentezza, alla serenità, alla gentilezza e soprattutto alla resilienza: come diceva il filosofo francese Blaise Pascal “L’uomo è una canna al vento, ma è una canna pensante”; l’autore, per mezzo del teatro conferma, ma al tempo stesso, ribalta l’aforisma del pensatore francese: è attraverso il corpo, medium principale del teatro, che la mente si adatta e si scrosta da tutte quelle sovrastrutture che la società ci impone, una società troppo abituata a correre da dimenticarsi dell’eterno fluire del tempo. Nel mezzo c’è il ricordo del Maestro Orazio Costa, delle interpretazioni shakespeariane e tanta, tanta poesia: alla fine di ogni capitolo troviamo una lirica, da Gabriele D’Annunzio a Giuseppe Gioacchino Belli, da Leopardi a Pasolini. Eppure, l’autore non vuole essere uno “spacciatore di ricette per la felicità”: egli non è un guru o un santone, che ti vende la pozione per essere felice a peso d’oro, ma semplicemente un uomo in continua mutazione, come l’energia dell’universo, che, seppur imperfetto, impara giorno per giorno a essere felice.

Recensione di:  Marco Canonico

 MAMMA VOGLIO MORIRE di Maria Cristina Giongo (CASA EDITRICE: BERTONI EDITORE)

Muriel dovrebbe essere una bambina come tutte le altre: una di quelle che gioca con le bambole, invita le amichette a casa, nella spensieratezza della sua infanzia. Invece, a Muriel le bambole non interessano; a lei interessa sentire il dolore del mondo: si veste sempre di nero, come se fosse a lutto, si stringe i capelli talmente forte da sentire dolore, a scuola è capitato di aver chiesto ai compagni a farsi seppellire viva, come se fosse morta. La frase che dà il titolo al romanzo di Maria Cristina Giongo Mamma voglio morire, è una costante di Muriel, che la ripete alla mamma con nonchalance, come se fosse una cosa normale. Muriel diventa così un caso psichiatrico, girando per specialisti, fino a che non arriva quello “giusto”, che spiega che Muriel si è letteralmente presa addosso il dolore del mondo, perché è stato il mondo a dare dolore a lei. Questa piccola “imitazione di Cristo”, nasce proprio dal tanto, troppo dolore inflitto ai bambini: ogni giorno la televisione ci racconta di infanzie rubate, di bambini che devono lottare per sopravvivere, oppure, come Muriel, si arrendono per prendere su di sé il dolore del mondo, troppo pesante pure per un adulto, figuriamoci per un bambino. Maria Cristina Giongo ci racconta sapientemente di un’infanzia rubata, anche troppo silenziosa, ma che, per questo, fa più paura.


Recensione di: Marco Canonico

IO SONO SELENE di Selene Luise (Casa editrice: Daimon Edizioni)

Mettere un fiore come immagine di copertina non può che essere azzeccato: in fondo questo libro è un fiore ed è un piacere averlo in mano in formato cartaceo piuttosto che digitale. Già perché un fiore digitale non si può accarezzare né sentire l'odore. A dominare questa silloge poetica sono il passare delle stagioni come nelle Opere e i giorni di Esiodo e la descrizione di paesaggi: Selene ha dipinto molte delle sue poesie qui presenti come dei quadri ("Al mare"; "Estate"; "Autunno", ecc.) che ricordano loci amoeni virgiliani. Tuttavia l'intento non è quello di emulare celebri autori del passato, come anche dice nella poesia "Al mare". Lei non è né Virgilio, né Leopardi né altri: solo Selene. Questa raccolta non parla d'amore eppure ci rivela l'indole e in parte il cuore della poetessa: "Perdono selettivo" è l'esempio calzante, infatti ci disvela il carattere chiuso e diffidente che tuttavia è solo una corazza che Selene è costretta a portare, come molte persone, nella spietata società d'oggi. Non è facile difendersi dai colpi della vita e tenere un'armatura può apparire la soluzione migliore. Eppure io penso che se è stato necessario indossare una corazza vuol dire che l'intento è quello di difendere un cuore gentile che non sopporta più gli urti di questo mondo che è estremamente bello ma allo stesso tempo violento. Altri temi trattati della poetessa abruzzese in questa raccolta sono la ferita aperta e la paura lasciata dal terremoto avvenuto presso L'Aquila nel 2009 e il ricordo di momenti intimi e personali, come ad esempio lo scendere della neve e il pensiero del Natale, che danno sollievo allo scrivere di Selene. Tanti sarebbero gli argomenti da trattare e ogni poesia meriterebbe uno studio a sé, ma aimè lo spazio e il tempo sono tiranni.

Recensione di: Marco Canonico

L'ANATOMIA DELLA SIRENA di Simone Delos (Casa editrice: Bertoni Editore)

“Le sirene esistono.” Con queste parole si chiude il romanzo di Simone Delos Anatomia della sirena: dall’inganno del pittore Costantinos, vero e proprio mostro, che rappresenta il Crono della mitologia, nasce una vera e propria leggenda nell’Isola greca di Praxos, ossia che su uno scoglio remoto si annidi una sirena. In effetti tutti i personaggi del romanzo sono a metà tra uomo e animale: Febo/Apollo e Diana/Artemis, figli di Costantinos, a cui, per un mero gioco di potere, l’infanzia è stata rubata troppo presto, sono esseri incompleti, gemelli, che riescono a trovare una propria compiutezza solo nell’essere uniti. Abbiamo il gigantesco professor Biancalana, troppo grande, troppo intelligente e, in aggiunta a ciò, omosessuale, per avere le fattezze di un uomo compiuto. L’incompletezza dei corpi è un tema topico del romanzo: Febo/Apollo riunisce in sé la bellezza; Diana/Artemis la nasconde per un solo motivo, che è in realtà il vero motore del romanzo di Simone Delos: l’odio dei figli per Costantinos, a sua volta ricambiato a causa della morte della madre, l’odio quotidiano di cui si nutre Diana/Artemis, l’odio passivo che lo porta verso la follia di Febo/Apollo. Tutti i personaggi del romanzo sono sirene, dal più importante al più marginale, poiché, come la sirena è metà pesce metà figura umana, essi sono pieni di chiaroscuri che ne fanno metà uomini metà mostri.

Recensione di Marco Canonico

NON SVEGLIATE DON EUPREMIO - di Vito Introna (Bertoni Editore)

Fasano è un piccolo paesino tra Bari e Brindisi, dove Don Eupremio, vecchio boss della Sacra Corona Unita, detiene il potere sulle masserie e sul commercio locale. La sonnacchiosa vita di Fasano viene interrotta quando si scopre che un serial killer di bambine, un pedofilo mai identificato, gira indisturbato per le strade del paese, uccidendo ragazzine di famiglie umili, spesso a servizio di Don Eupremio. Quest’ultimo è furioso, poiché non può permettere che tali fatti avvengano all’interno delle sue proprietà. D’altro canto, l’ormai inattiva tenenza dei Carabinieri di Fasano, con ufficiali prossimi alla pensione, viene invasa da carabinieri reietti e colpevoli di aver violato il codice d’onore, capitanati dal tenace Alfonso Guarna. Sarà proprio lui l’interlocutore di Don Eupremio, il quale, a prima vista sembra prenderlo in giro, ma in realtà lo sta lentamente portando verso l’atroce verità. Nel mezzo si collocano tre impiegati romani: lo scontroso Saverio, barese d’origine, il fervente cattolico Fabrizio, proveniente in realtà da Catania, e il playboy romano DOC Andrea. I tre, al culmine degli omicidi, si troveranno casualmente in Puglia e saranno a turno sospettati. Ma la verità è davvero quella che sembra? Vito Introna in Non svegliate Don Eupremio tesse un romanzo fatto di chiaroscuri: nessun personaggio è realmente quel che dice di essere, a cominciare dall’imprevedibile Don Eupremio, che sembra voler aiutare le Forze dell’Ordine, ma in realtà risulta essere molto ambiguo. L’ambiguità, il non sapere fino in fondo da che parte stanno i personaggi risulta essere il punto di forza del romanzo, fino a uno sconvolgente epilogo.

Recensione di Marco Canonico

DAMMI VENTO. ROTTA VERSO PONENTE - di Paola Mezzogori e Sandro Ardizzon (Bertoni Editore)

Dammi vento. Rotta verso ponente, prima di essere un libro d’avventura, in cui si solcano i mari fino all’Oceano più profondo, è innanzitutto una storia d’amore: ormai amore è una parola abusata e Giulia, la protagonista fugge proprio da un amore malato. Lo stesso farà Luca, che dalle meravigliose coste dell’Argentario, vede la sua vita sgretolarsi piano piano: la crisi con la sua compagna Anna dopo una gravidanza finita male, il licenziamento e la sua eterna insoddisfazione verso una società di “automi” lo spingono ad avvicinarsi all’enigmatica figura di Francesco, ex maestro elementare del quale si dice che abbia fatto il giro del mondo in barca a vela. Questo insieme di fattori porterà Luca a decidere di fare la medesima avventura del Maestro, ma ci sarà una tappa necessaria: Levante, una piccola isola dell’Arcipelago delle Eolie, dove Giulia si è rifugiata da sua zia, l’amorevole e anticonvenzionale Tindara, che ha il compito di prendersi cura di lei dopo l’ennesima violenza del fidanzato Luigi. A Levante, tra lezioni di yoga, pranzi faraonici al ristorante di Zia Tindara, Luca e Giulia si incontreranno e partiranno con un viaggio dal duplice intento: Giulia vorrà riscoprire le proprie radici a Capoverde, Luca vorrà riscoprire sé stesso. Come si diceva prima, Dammi vento è una storia d’amore, ma di un amore atipico: quello verso se stessi, che è il primo grado di unione perfetta con l’altro. Del resto, lo dirà la stessa Zia Tindara in un suo mantra: “Tutto è amore” e non può essere tale se non è condiviso. Paola Mezzogori e Sandro Ardizzon non scrivono di una semplice avventura in barca, ma del viaggio verso la parte più profonda di sé, dove le paure si rivelano, ma, al tempo stesso scompaiono, accecate dalla luce di quel perfetto amore di cui parla Zia Tindara nel suo mantra.

Recensione di Marco Canonico


AMBASCIATORI A ROMA di Marco Finelli (Casa Editrice: Bertoni Editore) 

Uno sguardo privilegiato sull’Italia, da chi ogni giorno tesse relazioni diplomatiche in ricerca di un difficile equilibrio. Il volume di Marco Finelli ha il merito di prendere una figura di grande prestigio, quella dell’ambasciatore, e di portarla vicinissima al lettore. Quattordici interviste con altrettanti capi di rappresentanze diplomatiche nel nostro Paese, una finestra su come il mondo ci percepisce e si rapporta con noi. Si scoprono punti di vista molto diversi tra loro, specchio dell’attenta selezione fatta dall’autore. Ci sono rappresentanti di Stati che hanno comunità molto nutrite in Italia: Romania, Marocco, Perù, Ecuador. In questi casi è impossibile non parlare di accoglienza e di integrazione, di cogliere gli aspetti positivi e di ragionare allo stesso tempo sulle criticità. E poi le grandi potenze, come Regno Unito e Russia, con le quali l’Italia si trova spesso a trattare e a confrontarsi. La diplomazia, come fa giustamente notare nella prefazione del libro l’attuale presidente del Parlamento europeo David Sassoli, deve fare i conti con un mondo sempre più interconnesso, in continuo cambiamento e ogni singola intervista permette al lettore di immergersi nel lavoro quotidiano che ogni ambasciatore deve svolgere per rispondere a queste sfide. Il volume è impreziosito da tabelle e dati che mostrano la distribuzione dei cittadini dei Paesi trattati nelle varie Regioni italiane, e da curiosità che riguardano i singoli diplomatici. L’umanizzazione della figura dell’ambasciatore è probabilmente il pregio più grande del libro: scoprire le loro passioni, cosa apprezzano di più dell’Italia, le difficoltà che hanno affrontato quando sono arrivati a Roma in rappresentanza del proprio Paese d’origine, sono delle chicche che rendono la lettura piacevolissima e accessibile a tutti.  

Recensione di Marco Canonico

NOTE FAMILIARI di Giulia Di Placido (Casa Editrice: Bertoni Editore)

A volte nella vita non c’è solo il bianco e il nero dei tasti di un pianoforte, ma ci sono anche le sfumature: è questa la lezione che dà Rinaldo, pater familias, della famiglia Antori ai suoi figli Alma, Alfio, Allegra e Alvise. In Note familiari ne troviamo tante di sfumature, a volte nemmeno comprese dai protagonisti: i legami tra fratelli si sono spezzati ormai da tempo e, complice una chat che reca la nomenclatura “In caso di morte”, creata da Giorgia, moglie di Rinaldo, tutta la famiglia Antori si ritroverà nella sala d’aspetto di un ospedale. Troviamo Alma, donna all’apparenza forte e sicura, ma che sta soffrendo molto per la separazione dal marito Ugo, poi c’è Allegra, che ha lasciato il futuro marito per una donna a una settimana dal matrimonio, scatenando le ire del fratello Alfio, che già pregustava affari milionari con il futuro marito della sorella. Alfio è succube della moglie Camilla e ha un figlio obeso di nome Enrico, mentre Alvise è l’eterno adolescente che fa costantemente uso di marijuana. Quella notizia li riunirà, facendo risvegliare vecchi rancori, ma anche la parte più umana dei personaggi, poiché nessun uomo è un’isola e ha bisogno di una famiglia per trovare la propria identità. Nella Famiglia Antori sono molte le note stonate, ma rimangono da monito le parole di Rinaldo a Giorgia: “Io sarò con te anche se in un’altra forma”; è questa la chiave del romanzo. In Note Familiari  Giulia Di Placido ci mostra che le cose non sono di un solo colore, ma che la bellezza si nasconde nelle sfumature, anche in quelle di una famiglia disfunzionale.


Recensione di Marco Canonico


IL BOUQUET SIMBOLICO di Vincenzo Agostini (Casa Editrice: Polymetis Edizioni)

Il Bouquet simbolico è un gioco di allusioni letterarie, come dice la prefazione, dove a ogni poesia corrisponde un fiore ambivalente: può essere la rosa piena di purezza, può essere la pulizia della lavanda, oppure l’ambiguità della digitale purpurea, cantata da Pascoli. Proprio questa serie di richiami, dall’Adone di Giambattista Marino, alle Rime di Torquato Tasso, come sottolineato dal prefatore, rendono questo gioco di allusioni letterarie quasi centonario, ma al tempo stesso ambiguo: è proprio l’ambiguità a costituire il tratto distintivo de Il Bouquet simbolico, dove non si sa se la poesia – fiore nasconda un messaggio di purezza o la sensualità della Digitale Purpurea. Davanti alla silloge di Vincenzo Agostini ci sentiamo proprio come quelle educande spaventate dallo strano fiore, che Pascoli cantò: possiamo reagire restando ligi alle regole, oppure possiamo toccare e accarezzare quel fiore proibito. Allora, se ciò avviene, l’autore ha raggiunto il suo scopo, ossia trasformare il lettore in qualcosa di altro, caricandolo di quella sensualità che le liriche de Il Bouquet simbolico emanano. Allora a questo punto sorge la domanda, noi, tanto abituati a vivere la letteratura nelle polverose aule di scuola, saremmo veramente in grado di ammettere a noi stessi che essa è prima di tutto un’esperienza sensoriale? Se siamo pronti ad accogliere la sensualità di Vincenzo Agostini e della sua opera, allora la risposta è sì. 

Recensione di Larissa Gaudi

CURIOSA LUCE di Marco Canonico (Casa Editrice: Polymetis Edizioni)

In Curiosa Luce Marco Canonico mette insieme due sillogi: una in cui predomina la luce sfolgorante della vita, mentre l’altra si tinge di ombre, di chiaroscuri dove i confini tra sogno e realtà sono molto labili. Le due sillogi, tuttavia, si completano a vicenda: dall’inganno (o forse no) marittimo di Allucinazione, si passa ai momenti di vita vissuti, filtrati da quel caleidoscopio che chiamiamo emozioni, di Curiosa luce. A detta di Marco Canonico, autore di entrambi le sillogi, in Curiosa luce troviamo due liriche (“16 agosto”, ispirata a un bel momento condiviso con un’amica, a “Cattedrali di Luce”, dedicata a una collaboratrice dell’autore) che raccontano la vita vera e il mondo di emozioni del poeta: in tutta la raccolta si attende sempre un ritorno, che non si sa se ci sarà o meno, tanto che a volte lo scrittore, come un moderno Telemaco, non riesce a varcare quel confine che lo può condurre verso qualcosa di indefinito. Indefinita è anche la seconda parte della silloge: Allucinazione, dove un parassita mostruoso promette un ritorno a un giovane spaurito all’interno dell’estate allucinatoria. Come si vede, tutto ritorna: dai mostri alle emozioni più veraci. 

Recensione di Larissa Gaudi

IL SOLITO VIZIO di Pierluigi Larotonda (Casa Editrice: Bertoni Editore)

Torino, 1975, viene trovata una ragazza uccisa a causa dell’eroina, ma il padre sostiene che si tratti di omicidio. L’Agente di Polizia Benevento, poliziotto corrotto da clan siciliani, e il suo ambizioso e violento collega Mario Scarciotta si occupano dell’indagine. Il Commissario Canino, loro superiore, vuole un’inchiesta all’acqua di rose, ossia che i due agenti si limitino a portare il pusher che ha venduto la dose a Monia Taranto, la ragazza morta, al fine di poter archiviare subito l’inchiesta, ma le cose non tornano. Innanzitutto Monia collaborava a una radio clandestina di estrema sinistra, ma aveva anche delle frequentazioni Neofasciste: in quegli anni le due fazioni si facevano una terribile lotta armata, quindi come poteva Monia frequentare un suo collega della fabbrica in cui lavorava, noto per le sue simpatie di Estrema Destra? L’Agente Benevento, forse il peggiore dei poliziotti di Torino, non era mai stato bravo in geometria, ma sapeva che la quadratura del cerchio era impossibile: ebbene, con questa indagine Benevento si ritrova a dover far quadrare il cerchio, tra politica, terrorismo di destra, ricchi industriali e conti in banca in Svizzera. Il solito vizio è ambientato nel 1975, ma potrebbe essere narrato anche oggi: in fondo, non è cambiato nulla e quel vizio di cui parla Pierluigi Larotonda, autore del romanzo, è quello dell’omertà, in cui tutti sanno tutto, ma fanno finta di non sapere niente. Un vizio talmente pericoloso da rendere precaria la vita di tutti.

Recensione di Marco Canonico

LA SICUREZZA E IL PENSIERO CARDIOPATICO di Vincenzo Calò (Casa Editrice: Bertoni Editore)

La poesia di Vincenzo Calò è un testo aperto, nel senso che il lettore non è più il passivo ascoltatore di un’aula scolastica, quello che recita a memoria versi di Pascoli, ma che entra dentro l’abisso di Pascoli e cerca di comprenderne il mistero. Quest’attività, come ci ricorda Sergio Tardetti, prefatore di La sicurezza e Il Pensiero cardiopatico, le quali sono due sillogi distinte, non è un affare della parte razionale di noi, ma di quella irrazionale: chi vuole capire si arrovella in complesse equazioni matematiche intorno a una poesia, ma chi vuol comprendere si lascia guidare dalla sensazione onirica che è in ognuno di noi, dallo Spirito dionisiaco, direbbe il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche. La poesia di Calò non è sicura, a dispetto del titolo, almeno non per il lettore matematico, ma per il lettore superuomo è tutto più facile, poiché si abbandona alle correnti della poesia onirica di Calò. Prendendo la prima lirica de La sicurezza, il poeta ci mostra situazioni apparentemente normali (“non faccio in tempo a scendere dalla macchina/ uccisa dagl’indizi per costruire ciò che accade nel / benestante/ e sentire ruggini nel silenzio di chi va a scuola/ autorizzato da filmati per promuovere divieti al lavoro degli altri.), dove c’è qualcosa di strano: il mondo benestante e l’arrugginito scolaro o professore si trasformano in un incubo allucinato (forse velato di critica alla scuola stessa?). Il “normale” in Calò è un qualcosa di sottile, come il confine tra sogno e realtà, oppure quello tra sanità mentale e follia. E allora è ancor più vero l’aforisma di Nietzsche “E se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te.” La sicurezza e Il Pensiero cardiopatico sono le sillogi dell’abisso, dove è pericoloso affacciarsi, in quanto dopo ci si trasformerà in persone diverse. Sta proprio in questo l’“apertura” della poesia di Vincenzo Calò.

Recensione di Marco Canonico

Jacopo Siculo. Nella Chiesa della Madonna di Loreto a Spoleto di Monica Paggetta (Casa Editrice: Bertoni Editore)

L’arte ha due dimensioni: una pubblica e una misterica. Per quanto riguarda la prima, il notabile spoletino Tommaso Spinelli commissionò al misterioso pittore siciliano Jacopo Siculo un’edicola votiva alla Madonna di Loreto. Ciò aveva sia una finalità geografica, poiché Spoleto si collocava tra Umbria e Marche, sia una dimensione pubblica: infatti, furono attribuiti all’edicola tutta una serie di miracoli, tanto che fu resa necessaria la costruzione di una chiesa qualche anno dopo, dato l’enorme afflusso di pellegrini. Ma chi era Jacopo Siculo? Le notizie riguardo al suo personaggio sono piuttosto incerte: si pensa che prima cercò fortuna nella Roma dei Papi, che prima ancora aveva conosciuto gli splendori di Raffaello e di Michelangelo, ma ottenne scarso successo. La sua prima opera è attestata al 1524 nella provincia di Viterbo, dopodiché si spostò in Umbria dove dominava lo Spagna, pittore attivo tra Perugia, Assisi e Terni. Si dice che Jacopo Siculo fosse genero o cognato dello Spagna, ma come mai il Vasari non ne fa alcuna menzione? Eppure, la vera domanda è nello stile: Jacopo, nonostante il manierismo severo alla Raffaello, nell’edicola votiva, soprattutto nella parte paesaggistica dell’edicola, sembra riprendere il Rinascimento umbro del Perugino e del Pinturicchio; ma come mai un pittore formatosi nella Roma dominata dal gusto di Raffaello avrebbe dovuto ripescare il Rinascimento umbro, molto più “spiritualizzato”? Si possono avanzare varie ipotesi: influenza dello Spagna? Gusto di pubblico? Ma quel che è certo è che Monica Paggetta in Jacopo Siculo nella Chiesa della Madonna di Loreto a Spoleto non vuole fornire risposte certe: ella si limita a una disamina scientifica di Jacopo Siculo e della sua opera, dedicando un capitolo al restauro dell’edicola e alla fortuna critica del pittore siciliano. Il resto è solo la componente misterica dell’arte, di cui scopriremo sempre qualcosa di nuovo, anche nel già detto.

Recensione di Marco Canonico

PENSIERI PARTECIPI di Ilva Sartini (Casa Editrice: Bertoni Editore)

La silloge Pensieri partecipi di Ilva Sartini ricalca la frase leopardiana contenuta ne “La ginestra”, ossia che gli uomini debbano unirsi “in social catena”, poiché l’esperienza personale dell’autrice è un paradigma dell’umanità intera, specialmente quella più emarginata: alla fuga della poetessa dalla terra che l’ha nutrita, che a tratti richiama il “Cantico dei Cantici” (“Come la terra che ha nutrito con amore/ chi l’ha sfruttata e dileggiata/ col suo vivere insipiente/ si è fatta più bella/ per rinnamorare l’amato” da “Terra”), contenuta nella sezione “Paesaggi”, fa coppia la solitudine, la nostalgia della propria terra e la speranza del bracciante straniero, a cui è dedicata la sezione “Emozionario del Piceno”, in cui si legge: “Riposa, di festa, il bracciante straniero./ Appena finisce di lavorare/ corre ad ascoltare/ il rumore del mare.” (da “Riviera delle Palme”). Lo stesso amore per la propria terra, vista come una sposa da amare, lo si ritrova sia nell’autrice sia nel bracciante straniero, ma la visione paradigmatica della poesia di Ilva Sartini non si esaurisce qui: Le sezioni “Vita” e “Vite infrante” sono entrambe legate dal tema dell’amore negato, in cui l’esperienza personale della poetessa di abbandono da parte dell’amato (quasi un “Cantico dei Cantici” al contrario!) fa coppia con esperienze ancora più drammatiche, quali l’immigrazione, il razzismo e il femminicidio. Eppure, la vera sezione che svolge il ruolo di cerniera della raccolta e che si lega con l’ultima, “Ritorni”, è proprio “Pensieri Partecipi”, che dà il titolo alla silloge: in essa l’autrice si confronta con la propria figlia e con l’idea che ella diventi madre. Infatti, il tema della maternità è una costante in Pensieri partecipi, poiché essa porta sempre una ventata di novità e di futuro, come si può leggere anche nella sezione “Ritorni”: “Non tornerò a cercarle nel vecchio borgo/ diventato un cumulo di sassi/ non tornerò nemmeno se qualcuno li rialzasse/ se tornassero i muri dritti, le stanze, gli arredi.” (da “Son tornata a cercarvi”). In definitiva, la poesia di Ilva Sartini si apre al futuro come una meraviglia, come un regalo da scartare a Natale, pur non dimenticando le sue radici. 

Recensione di Marco Canonico

E CANTERÒ DI TE di Giovanni Ciao (Casa Editrice: Bertoni Editore)

“Non servirà un perché/succede/ e questo mi sarà bastevole” scrive il poeta Giovanni Ciao all’inizio della sua silloge E canterò di te, più specificamente nella lirica proemiale “Semplice perché”. L’amore non ha ragioni, non è un tribunale, semplicemente accade e basta al poeta stesso per dare e ricevere gioia. Fin dall’epigrafe che apre la raccolta (Mi sei mancata una vita/ in questi ultimi minuti) apprendiamo che il senso del tempo amoroso, come scrive il poeta, è quello di un’insopportabile separazione dall’oggetto del proprio amore di stampo quasi Stilnovista, come scrive Bruno Mohorovich nella sua prefazione: lo stesso prefatore sottolinea come il senso di questa raccolta non sia un amore fine a se stesso, ma un sentimento nato per la completa donazione di sé alla persona amata. Questo tema dell’alterità è stato messo in discussione nel Secondo Novecento da Jean Paul Sartre, il quale nel suo dramma teatrale Huis Clos, scrive che l’inferno sono gli altri; eppure la poesia di Giovanni Ciao non è “a porte chiuse”, in quanto essa si apre al mondo: dall’intimità della cambra (per dirla alla maniera dei Trovatori Provenzali) si passa alla completa apertura verso l’archetipo femminile, come se l’autore, muovendosi dal particolare all’universale, volesse cantare tutte le donne dell’universo. Si passa allora a una prospettiva personale – intimistica a una universalistica; in fondo, nella visione mistica dell’amore, esso non è rivolto a tutti? Ed è necessario chiudere con Francesco d’Assisi, il quale, correndo qua e là, ripeteva urlando: “L’Amore non è amato!” Che E canterò di te, silloge poetica sull’amore, ci insegni a riamarlo a nostra volta. 

Recensione di Marco Canonico

GRAVITÀ di Guendalina Pace (Casa Editrice: Bertoni Editore)

Gravità di Guendalina Pace non è un romanzo, almeno non nel senso stretto del termine: potremmo definirlo come uno sfogo, ma essi hanno un loro ordine cronologico e non iniziano mai dalla fine, come accade in Gravità, e, per di più, sfogo sarebbe un termine alquanto riduttivo per le parole, pesanti come macigni, ma vere dell’autrice. Allora, di che cosa si tratta? Di un’autobiografia? Di una riflessione personale? Di un saggio filosofico? Niente di tutto questo, poiché Gravità è poesia. Forse il lettore comune con il termine poesia intende altro, ossia un qualcosa basato su metrica, figure retoriche e aulicismi; eppure, la poesia può essere intrinseca anche in un pezzo di prosa: Patrizia Cavalli con la sua silloge Datura è ciò che più si avvicina all’operazione compiuta da Guendalina Pace, poiché si tratta di una lirica del corpo, ma di una corporeità dissolta ed entrambe le opere presentano questa corporale rivendicazione di baci, carezze e abbracci mancati. A ogni modo Gravità è poesia che viene colta alla fine (non si sa se dell’esistenza o di un nuovo ciclo), per poi percorrere a ritroso l’intera vita umana fin dal momento della nascita, che l’autrice definisce un parto cesareo. Da anni si discute sulla veridicità dell’io lirico, su quanto i poeti mentano nell’autobiografismo; ebbene, ogni parola presente in Gravità è vera, perché vi è un dissenso dalla libertà orwelliana che diventa schiavitù, e questo dissentire dell’autrice fa sì che l’umanità media, che non conosce la poesia, riceva una sua fotografia al vetriolo. C’è molto da imparare dal libro di Guendalina Pace: innanzitutto, l’arte del dissenso, quella dei baci, degli abbracci e della poesia. Tuttavia, per poter apprendere qualcosa, è necessario che il lettore si lasci trasportare come Alice dal Bianconiglio nell’ignoto più completo, per diventare anch’egli “osso nel buio”. 

Recensione di Marco Canonico

DI VENTO E DI GINESTRA di Elisa Piana (Bertoni Editore)

La poesia di Elisa Piana è Di Vento e di Ginestra, come quella foto scattata nel 1966, che ritrae i suoi genitori innamorati e che ispirò al poeta Giovanni Ciao meravigliosi versi. Dopo aver raccolto le infinite “polaroid” della sua vita, fatta di delusioni, rabbia, ma anche di gioia e di amore (soprattutto quello), l’autrice “collabora con il sole” per tessere una silloge dalla scrittura “più adulta, consapevole e strutturata” (parole dell’autrice) che è Di Vento e di Ginestra. Lui, Vento/ Lei, Ginestra/ Ed io, io sono di Vento e di Ginestra. Questo è il piccolo epigramma che l’autrice dedica ai propri genitori e su questa scia si strutturerà la silloge: c’è un’armonia perduta in “Aria di Tempesta”, quasi di pascoliana memoria ("Aria di tempesta, dentro me”), per poi ricomporsi in “Caduta libera”: “Guardami fiorire/ dal tuo stesso brivido”, che ricorda quasi il “Cantico dei Cantici”. Eppure, resta l’enigma delle due sostanze di cui è fatta Elisa: il Vento è la personificazione del padre deceduto, che passa, ma, come aria rimane sempre con lei; la Ginestra, fiore resiliente alle asperità (come ci insegna Giacomo Leopardi), è la madre, vera forza della natura. La poesia di Elisa Piana e, forse, l’autrice stessa è la sintesi di una storia d’amore che gioca tra l’immanenza del Vento e la presenza della Ginestra. Sarebbe opportuno concludere con i versi di “Terra, grano e frutti”: "Terra che accoglie,/ terra che dà grano e frutti./ Terra che culla/ e qualche volta trema." La terra di Elisa Piana è proprio così: Di Vento e di Ginestra parla di radici, conficcate a terra, che, a volte, possono anche cedere, ma rimarranno per sempre nostre. 

Recensione di Marco Canonico

SORTILEGIO D'AMORE di Marco Ambrosi (Bertoni Editore)

Non provate a sistemare le gocce di una vita/ numerandole/ si mescolerebbero comunque,/ a meno che non siano ghiacciate. Sortilegio d’amore  di Marco Ambrosi non contempla la fissità del ghiaccio e dell’inverno: la silloge è sempre in movimento e ogni lirica rimescola le carte in tavola, mostrandoci frantumi della vita dell’autore, che culminerà proprio in un sortilegio, nella scoperta che una strega può ammaliarti a tal punto che il mazziere ridà le carte ai giocatori e la partita ricomincia (per usare una metafora del Poker). Nella lirica “Il Giro Giuro” l’autore scrive:

“Mah sì… le streghe esistono,/ sono quelle donne che/ dentro di loro/ hanno compiuto il “giro giuro” della vita/ senza rimpianto.

La strega, come scriverà in seguito l’autore, è quel tipo di persona che non molla mai la presa, che piangono come se fosse pioggerella d’estate e proprio quella strega buona amerà una persona solo se degna. Sono donne forti le streghe, che pretendono un uomo con la loro stessa tempra al loro fianco, e il poeta ne ha incontrata una. Ma in cosa consiste il sortilegio? Forse la vera magia è proprio quella libertà di amare di cui scrive il poeta nella lirica proemiale, intitolata proprio “Auguri”: “fate l’amore,/ non i regali/ non c’è dono migliore che portare se stessi.”  Ma questo una strega lo sa bene e chi ha subito il sortilegio non può far altro che imparare.

Recensione di Marco Canonico

PARLERÒ DI TE di Bruno Mohorovich (Bertoni Editore)

“Rileggo questa follia,/ che affido a un velo di vento/ perché la posi alla tua finestra,/ nell’ovatta luce della luna.” Con questa poesia, quasi proemiale, oserei dire, Bruno Mohorovich fa iniziare la sua silloge Parlerò di te: questi versi sembrano quasi la chiusa di una canzone di Cavalcanti o di Petrarca, i quali “pregano” affinché le loro liriche amorose giungano fino alla donna amata; eppure il poeta, nel suo itinerario all’interno dell’amore, come scrive il prefatore Sergio Tardetti, si rilegge e definisce la sua poesia come “follia”. Perché questa definizione? Noi abbiamo fatto quasi uno slogan circa l’irrazionalità dell’amore, ma Bruno Mohorovich pesa ogni parola delle sue liriche con la bilancia e non vi è spazio per l’irrazionalità o per banali slogan. Allora perché usare il termine “follia”? Il poeta ce lo spiega nella lirica successiva: “tra note di musica che compongo/ ma non so suonare”. La “follia” è la poesia stessa, la quale è musica che l’autore non sa suonare; Sergio Tardetti, prefatore della raccolta insieme a Guido Buffoni, paragona il “tu” poetico di Mohorovich alla Laura più spiritualizzata che carnale di Petrarca, ma c’è un elemento che accomuna tutti i poeti che scrivono d’amore: la tragicità, ossia quel comporre musica che non si sa suonare, quasi un “Velo di Maya” strappato a metà, in cui fantasia e realtà si mescolano. In definitiva con Parlerò di te Bruno Mohorovich, come un autore di romanzi cortesi, si avventura in un viaggio nell’amore e per amore, ma la vera domanda è: si può fare ritorno dall’amore?

Recensione di Marco Canonico


SEGNALI DI VITA di Luca Barcaccia (Polymetis Edizioni)

Il romanzo Segnali di vita di Luca Barcaccia apre la propria narrazione con una telefonata alquanto bizzarra: Francis chiama a casa del suo amico Rolan per parlargli di affari molto intimi, ma apprende dalla madre dell’amico che Rolan è morto in un incidente stradale appena un anno prima; nonostante ciò, Francis è convinto che l’amico sia vivo e che si possa dialogare con lui.

Questo è l’inizio di Segnali di vita, un romanzo che ha come tema principale la morte, perché, in fondo, come diceva il compianto cantautore Franco Battiato, mentore dell’autore e a cui il romanzo è dedicato, non ci insegnano a morire: dalla censura della morte operata da Platone (si veda il III Libro del dialogo La Repubblica) in poi, è come se avessimo “disimparato” che, forse, il nostro fine ultimo è la morte stessa, censurandola in tutti i modi.

Tuttavia, il paragone operato dall’autore sui pesci come i delfini e le balene, che emergono dal mare, ma ben poco sanno del mondo fuori dalle acque, ci dovrebbe spingere a una domanda più profonda: quanto effettivamente conosciamo della morte? Si può credere che esista una forma di Paradiso o di Inferno, tipica delle religioni abramitiche, oppure, passando al versante orientale, una reincarnazione in qualche essere vivente, ma in fondo noi non sappiamo nulla della morte. Eppure, nel lungo dialogo con la madre di Rolan, Francis sostiene che l’amico sia ancora vivo e che sia necessario trattarlo come se fosse nella stanza accanto. Ciò introduce un interrogativo: la morte è in realtà un passaggio di stato dinamico, oppure, foscolianamente parlando, si serba il ricordo del defunto per farlo rivivere attraverso chi non è ancora morto? In realtà, l’autore propende per la prima ipotesi: la morte come dynamis, come passaggio di stato. Allora, in questo caso bisogna ammettere per forza che Rolan è ancora vivo.

Infine, l’autore a inizio romanzo scrive una toccante prefazione, in cui è presente una poesia dedicata al defunto amico Enrico: in fondo, le persone con cui Luca Barcaccia ha condiviso i suoi “segnali di vita” non sono morte, sono solo mutate.


 Larissa Gaudi