La fontana della vergine di Ingmar Bergman sotto il giudizio di tre filosofi

Cari lettori,

ieri sera mi sono imbattuta in un piccolo gioiello del cinema svedese, La fontana della vergine di Ingmar Bergman, datato 1960, nonché Premio Oscar al miglior Film Straniero nel 1961 e Golden Globe per il miglior film straniero (sempre nel medesimo anno).

Un accenno di trama: il ricco possidente Töre insiste perché sua figlia Karin porti dei ceri durante una processione alla Madonna. Questi ceri devono essere portati necessariamente da una fanciulla vergine e Karin, accompagnata dalla serva Ingeri, pagana e incinta a causa di uno stupro (il film si apre con una preghiera di Ingeri a Odino). Le due giovani, però, per giungere al villaggio devono attraversare un tetro bosco, in cui la serva si rifiuta di entrare, venendo molestata dal custode di un passaggio fluviale. Rimasta sola, Karin incontra dei predoni che si spacciano per pastori: prima i suddetti banditi la violentano, poi la uccidono, rubandole gli abiti. Ingeri è testimone di tutto ma, forse per invidia, forse per paura non interviene. Frattanto, i tre predoni, dei quali fa parte anche un bambino, si recano inconsapevolmente nella dimora di Töre, padre di Karin, per cercare rifugio, ma commettono l’errore di cercar di vendere uno degli abiti della figlia alla madre della fanciulla. Scoperto tutto e dopo aver raccolto la testimonianza di Ingeri, Töre si vendica nel più brutale dei modi, uccidendo pure il bambino.

Quello che dovrebbe interessare il lettore è il monologo di Töre, che è comunque un uomo di fede, rivolto a Dio: egli afferma di non comprenderLo, né tantomeno di capire come una divinità benigna abbia potuto permettere non solo che la figlia fosse stuprata e assassinata.

Nel V secolo d.C., precisamente nel 410, successe un evento che qualunque cittadino romano, pagano o cristiano, avrebbe fatto fatica a comprendere: il Sacco di Roma a opera di Alarico I. Agostino, Vescovo d’Ippona e figura eminente nel Cristianesimo latino decide dunque di scrivere un trattato in primis contro le rinnovate accuse dei pagani, ma anche per dare una lettura teologica di questo clamoroso evento. Il De civitate Dei, questo il titolo del trattato di Agostino, dopo l’ennesima confutazione del paganesimo, distingue tra amor sui, l’amore verso sé stessi, che porta necessariamente a commettere il male, e l’amor Dei, l’amore verso Dio, che conduce alla vera Città, quella Celeste.

Ora, Töre, pur avendo l’amor Dei (egli è un ottimo cristiano, che prega prima di mangiare e che insiste perché la figlia sia la “protagonista” della processione), commette palesemente un atto di amor sui, praticando la vendetta. Ed ecco che la pellicola crea non volendo una contraddizione una falla, nella teologia storica agostiniana. Come procedere, dunque? Occorrerà fare appello a un altro filosofo, di molti secoli più avanti, il quale non era credente: Immanuel Kant.

La celebre massima morale di Kant “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro me” implica che la prospettiva non è più divina, ma umana e che la natura umana sia essenzialmente buona. L’Imperativo Categorico kantiano, ossia una morale del dovere, implica necessariamente una prospettiva ottimistica dell’essere umano; eppure Töre, che ben conosce la legge morale, commette un atto tragico, nel senso greco del termine, che mal si addice non solo a un cristiano, ma anche a un essere umano. Qual è dunque la soluzione all’enigma di Töre?

Friedrich Nietzsche, dopo aver scritto La nascita della tragedia, uno scritto in cui, partendo dalla Tragedia Greca, si introduce il “Dionisiaco”, ossia la parte irrazionale dell’uomo e del mondo, con una svolta improvvisa del suo pensiero, pubblica La Gaia scienza, opera che contiene il celebre aforisma, ispirato a quello del filosofo cinico Diogene di Sinope, “Dio è morto”. Cosa significa questa frase? Non si tratta solo di Dio ovviamente, ma di tutto un sistema di valori, in particolar modo quelli cristiani, che è perito. Ecco il nichilismo di Nietzsche, che si espleterà poi nella figura del Superuomo, colui che, come un artista crea una nuova morale.

Ecco allora che Töre, con il suo interrogativo degno di una Tragedia Greca, pone le basi per una nuova morale: secondo Nietzsche, le sue mani macchiate di sangue sono un segno superomistico e la fonte che sgorga dal corpo incorrotto di Karin nel finale non può che essere segno dell’avvento del Superuomo.

Queste non sono le mie posizioni, ma quelle che Agostino, Kant e Nietzsche avrebbero avuto se avessero visto La fontana della vergine.

Ora passo la palla a voi: da che parte state?

Larissa Gaudi

 

P.S. potete trovare alcune delle scene iniziali a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=3xLv1c80FgU